UniversoPoesia

Da Matteo Fantuzzi quanto di buono offre la poesia italiana contemporanea. Forse.

Guido Monti su Malaspina di Maurizio Cucchi (Mondadori 2013)

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Le cose della vita e del mondo.

Tensione etica e metafisica unita a una struggente attenzione per gli aspetti umili della quotidianità.

In «Malaspina», nuova raccolta poetica di Maurizio Cucchi edita da Mondadori nella collana Lo Specchio, freme un lavoro di scavo della parola e rammemorazione veramente ampio. Tutto illibro è un atto di laicissima evocazione di luoghi e persone estremamente concentrato per nitidezza e precisione di dettaglio. Maurizio Cucchi parte sempre dall’attrito con la cosa-mondo per ridiscendere poi ai suoi strati più remoti i quali sono tutt’altro che muti, anzi si fanno portatori di messaggi sempre nuovi. Ecco allora avvicendarsi in «Malaspina» (nome di un lago alla periferia di Milano) figure toccate dal passaggio del tempo, ma come riafferrate dalla mano di un presente continuo che le fa essere, con il loro carico d’espressività, ancora qui e ora tra noi. Questo il senso toccante sino all’estremo del «..film perduto / e presente per sempre, sepolto» e «…penetrandonelle caverne / interne, negli oceani… ». L’aderenza del poeta col reale si fa forte, s’infuoca. Maurizio Cucchi è quel fabbro, che porta a temperatura massima l’esistente per poterlo lavorare; i suoi occhi sono come fucine ardenti, prendono a squadrare i luoghi, scalzandone sipario «…traslucido/ di vacuità…» per ridar luce, appunto, alle ere sepolte: «E io mi infilo, / mi insinuo zampettando / per leggere e indagare, eterna, / l’umiltà dei secoli».

E in questo meta-spazio costellato di volti gioca ancora quel magnifico fanciullo che da «Il disperso» (raccolta d’esordio di Cucchi nel ’76) in poi ci ha accompagnato col suo carico di discreta presenza, quel bimbo da sempre saggio perché ascoltatore-silenzioso della vita in tutto il suo spessore di bellezza ma anche di dolore irredimibile; ecco si riaffaccia e a sentirlo è sempre lo stesso, gli girano attorno vecchi e nuovi frammenti identitari che restituiscono ancora una volta uno spaccato linguistico-paesaggistico memorabile: «…Masciadri era il suo preferito, / aperto negli occhi e nella fronte, / leale nel sorriso; masciader, merciadro, merciaio, quel nome / antico, così aspro e sonoro, /…» e quel bimbo con memoria virgiliana, accompagna il viaggiatore lettore di «Malaspina», col suo accresciuto senso dell’esserci e dice che anche il suo spazio, gioca lì sotto in quel «…terriccio di un mondo/ ancora poroso e ruvido, opaco, /…» rendendoci partecipe di unasua dichiarazione esistenziale molto precisa: «…Meglio, allora, rivolgere gli occhi di fuori, dove è il loro vero destino, degli occhi voglio dire…». È li che s’affaccia la metafisica, nella terra transitata e piena ora «…di micromondi in abbandono, / senza presenza umana…», lì il carico di morte è meraviglia, per chi voglia intendere, poiché l’abisso ultimo, seppur doloroso, ci comprende infinitamente.

 

E «…esplorando scoscesi terreni / sedimentari», ecco lampeggiare nel finale due uomini controversi, anticonformisti «proto-novecenteschi» come dice Alberto Bertoni in bandella di copertina, il capitano, presunto «….compagno incongruo / e burbanzoso, quel genio, / dotato di formali baffi trapezoidali…» del grande Gadda e il console personaggio dello scrittore Malcom Lowry; entrambi alla ricerca di verità ultime in terre traboccanti di natura, con quel loro destino votato alla autodistruzione per eccesso di abbraccio vitale col reale. Maurizio Cucchi li assume in sé, quasi calamitato da una sorta di reminiscenza che viene da impercettibili legami culturali e intellettuali e li rivisita alla luce di nuovi innesti identitari: «Eppure lui, il capitano, uscendo / dalla terra rovistata a fondo /… lo ritrovo in mia vece,/ …». «Malaspina» è un grande affresco sulla memoria della specie da cui tutti veniamo, ognuno di noi non è che escrescenza di qualcun altro che ci ha preceduto, tutti non facciamo che appartenerci, essere spezzoni di esistenze sepolte; e se guardiamo bene e scaviamo con audacia e pazienza ci troviamo ad essere filamenti del console, del capitano e, retrocedendo più indietro, di Glenn – misterioso e struggente personaggio dell’infanzia di Cucchi presente nell’intera sua produzione che prenderà anche il nome di Luigi – e del fanciullo silenzioso.

Da “La Gazzetta di Parma”, 7 Agosto 2013

 

Written by matteofantuzzi

11 agosto 2013 at 20:25

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Su “Figlio” di Daniele Mencarelli e le nuove strategie della collana di poesia Nottetempo

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Ci sono diversi aspetti per affrontare il nuovo libro di Daniele Mencarelli, la prima è l’apertura della nuova collana di poesia di Nottetempo, editore importante che apre questo nuovo spazio sotto la direzione di Maria Pace Ottieri, figlia di quell’Ottiero spesso ricordato come (enorme, fondamentale) narratore ma di cui consiglio caldamente di leggere l’opera poetica, uscita nel 1986 presso Marsilio. Nottetempo per prima scommette in maniera importante su una formula che privilegia nettamente l’e-book senza lesinare sugli autori (dato che dopo Mencarelli sono previste le uscite del sudcoreano Ko Un e di Gian Maria Annovi) andando in qualche modo ad abbattere una delle maggiori resistenze che la grande editoria riserva alle forme letterarie considerate “di nicchia” (il problema dei costi della diffusione dell’opera, affidata con potenza al mezzo ben più democratico della rete). Se la scommessa di Nottetempo sarà vincente credo sia una buona argomentazione per l’imminente salone del libro che sicuramente troverà la questione dei costi come dibattito “altrettanto pesante” quanto la qualità della proposta anche se non va dimenticato che esiste un’editoria di poesia virtuosa, è un esempio Crocetti, la scomessa fatta da Isbn con Targhetta, ma anche il catalogo della Ladolfi che ha superato la prima edizione di tutte le sue uscite spingendosi in alcuni casi anche oltre.
Rimanga allora innanzitutto il testo di Mencarelli, poeta capace e ormai maturo che riesce a dare il meglio di sé come già nel racconto dell’ospedale pedriatico romano Bambino Gesù quando lavora sul binomio infanzia/malattia certo abituato dallo sguardo quotidiano ma anche capace di rendere nelle vicende private bene l’idea di quello che significa oggi la sanità italiana, e cosa significhi affrontare umanamente dolore e malattia. Se negli ultimi tempi sono emersi diversi titoli che hanno lavorato sulle figure dei genitori (“I padri” di Giulia Rusconi senz’altro tra tutti) ecco che Mencarelli ribalta le questioni, affronta anche la fragilità del rapporto coi figli oltre che tutta l’impotenza di fronte alle problematiche e ai lutti. C’è in tutto questo un rapporto pieno con la verità, verità che senza sovrastrutture chiediamo con forza alla poesia.

Written by matteofantuzzi

11 Maggio 2013 at 16:11

Paolo Febbraro, La serietà della poesia, da Left 02.03.13

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Nostalgia di Pier Vincenzo Mengaldo: ecco il sentimento più forte che emerge dalla considerazione dell’attuale momento della poesia italiana. Da quando nel 1978 questo storico della lingua italiana e filologo poco più che quarantenne, già occupatosi di Boiardo e di Dante, licenziò per Mondadori la celebre antologia Poeti italiani del Novecento, nulla di simile si è più visto. Il volume superava le mille pagine, ne dedicava ben sessantacinque a un saggio introduttivo e il resto a una selezione delle poesie di cinquantuno autori, da Corrado Govoni a Franco Loi, ognuno preceduto da un saggio ad hoc, la cui lunghezza denotava già in sé preferenza. Le competenze affilate dello studioso e del critico stilistico erano affiancate, in Mengaldo, dalla capacità di leggere la poesia novecentesca nel contesto della Storia, senza avallare le ricostruzioni ideologiche e interessate delle avanguardie.

Quell’antologia stabiliva innanzitutto l’altezza alla quale condurre l’indagine, senza derogare in nulla alla cronaca, alla sua prossimità, all’impasto e intreccio di suggestioni e rapporti personali che costituisce l’attualità fagocitante in cui ognuno di noi vive. Così, anche il presente della nostra poesia andrebbe affrontato nel modo impegnativo che Mengaldo ha inaugurato. Una grande tradizione poetica, o meglio le diverse tradizioni che hanno innervato gli Ottocento anni della nostra letteratura, devono tornare a essere un viatico, ma anche una premessa necessaria, una possibilità ma anche un’ingiunzione di serietà e lavoro.

La prospettiva del presente, e la presa che ogni atto critico deve operare sull’attualità, non possono comportare un cedimento. La poesia ha una responsabilità enorme, perché rappresenta un’arte pur sempre inutile, non corteggiata dal mercato, eppure sottoposta ugualmente a una fortissima spinta massificatrice, a un livellamento verso il kitsch, verso la propria “riproducibilità tecnica”. L’aspetto grafico della poesia, così facilmente abbordabile con i suoi pronti “a capo”, la sillabazione e l’allusività, sembra avallare in anticipo l’imperizia artigianale con cui molti pensano di esprimersi. Ma il vero nemico non è tanto l’enorme quantità di volumetti stampati in proprio dai versificatori dilettanti, segno anche di una simpatia popolare per il genere poetico che non va aristocraticamente disprezzata, e che è spiegabile anche in termini antropologici. Il vero nemico è l’approssimazione con cui poeti anche affermati licenziano libri che incorrono proprio in quell’omologazione di cui sopra. Il rischio è proprio la perdita di altezza complessiva, l’abitudine alla poesia diffusa, la vittoria del cosiddetto “discorso poetico”, persino la sincerità di chi si confessa senza investire in un reale differenziale retorico, finzionale, inventivo, in una redditizia abilità compositiva e sintetica. In poche parole: a minacciare l’arte poetica non è tanto la sua pratica di massa, ma l’accettata corrività che da essa risale (si fa per dire) nella produzione di élite.

Uno degli indici più potenti per valutare la tenuta di un’opera poetica, allora, è quello della memorabilità. Proprio Mengaldo, nella premessa alla sezione antologica dedicata a Govoni (detto «simpaticissimo poeta»), riprendeva un celebre detto: «ciò non toglie che – salve le proporzioni – venga un po’ fatto di girare a lui ciò che di un altro poeta a tendenza fluviale, Éluard, pare abbia detto Mauriac: “Eccellente, ma chi ne ricorda un verso?”». Questa frase dovrebbe condizionare l’attività di chiunque volesse dirsi poeta. Consustanziale alla vera poesia, la memorabilità è insieme economia di mezzi, miracolo inconscio e intenzione, ritrovamento e cultura, sapienza oracolare e astuzia comunicativa. In poche parole, è arte, dura chiarezza, gioco sostanzioso, scansione esatta, rinuncia all’inessenziale.

Ma come si può parlare di memorabilità al tempo di internet? La rete mondiale non è solo la protesi della poesia che esisteva prima, ma un universo che ne fa qualcosa di differente. La facilità con cui si aggiorna un sito o se ne crea uno nuovo tende a cancellare per sovrapposizione. L’abbondanza crea quell’“effetto palinsesto” tipico delle età in cui la pergamena o la carta erano materiali preziosi: la sovraimpressione e il riuso. Oggi, buona parte della poesia inedita corre sul web, modificando non solo l’atto della lettura, ma alla lunga la poesia stessa. Eppure: non è questa un’ennesima crisi di trasformazione da prendere come stimolo a una maggiore selezione e incisività? Quando un poeta scrive è un ispirato, ma quando pubblica è un intellettuale. Dunque l’atto della pubblicazione è politico. Sapersi leggere, selezionare, addirittura centellinare in luoghi particolarmente adatti a sé; creare accordi simpatetici fra i propri versi e una temporalità discriminata e discreta: tutto ciò può contribuire a una buona politica della poesia.

Written by matteofantuzzi

8 marzo 2013 at 22:51

Perché soffrire ? Storia dei movimenti epigastrici all’uscita dei lavori antologici. Da Atelier n.68

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Partiamo da una constatazione, in Italia i lavori antologici inerenti la poesia fanno soffrire più che mangiare un’intera cassa di frutta appena colta dall’albero. E questo effetto aumenta nel caso la suddetta pubblicazione preveda la presenza di donne o bambini, che se per primi devono abbandonare le navi che affondano di certo non godono del medesimo trattamento nello spietato mondo della poesia italiana. Con questi presupposti si può comprendere il coro e le lamentazioni espressi all’uscita di Nuovi Poeti Italiani 6 e limitare l’analisi agli articoli usciti pochi giorni dopo e contemporaneamente il 22 luglio 2012 sul Domenicale de Il sole 24 ore (Matteo Marchesini) e su La lettura del Corriere della Sera (Roberto Galaverni) significa in qualche modo ridurre la questione, che probabilmente va sviluppata in maniera ulteriore.

Innanzitutto va pesato il carattere (effettivo) antologico di questo lavoro: uno strumento che analizza un arco anagrafico di circa 30 anni e che in qualche modo si concentra su una geografia periferica come quella in gran parte raccontata assume se non negli intenti quanto meno nella sostanza un’identità di mappatura e di indagine che in qualche modo ribalta il senso stesso dell’opera ma che in fondo lo unisce ad esempio alla precedente esperienza di Nuovi Poeti Italiani 5, curata da Franco Loi (e che decisamente meno diatribe ha prodotto). Possiamo forse dire che sarebbe stata di semplice reperibilità e percezione la poesia di Tolmino Baldassari, nel frattempo scomparso ? Il lavoro di Giovanna Rosadini va a mio avviso nella stessa direzione: più che sulla pericolosa questione del genere, ragionare su queste autrici significa prima di tutto ritrovarsi all’interno del liquido mondo delle nostre medio-piccole case editrici che sono il quotidiano terreno di un mondo che difficilmente possiamo omettere, un ragionamento concreto insomma da parte di uno dei pochi editori nazionali che ancora oggi lavora sulla poesia deve considerarsi inaspettato solo all’interno di un sistema nel quale la ricerca, la comprensione (e la militanza) sembrano essere semplici nicchie dedicate a qualche rivista di bravi e utopici artigiani. E non è al tempo stesso possibile dimenticare che questo lavoro coordinato da Giovanna Rosadini deriva anche e in maniera fondamentale dal contributo di altri importanti poeti e critici come Andrea Cortellessa, Gabriele Frasca, Marco Merlin, Salvatore Ritrovato e Umberto Piersanti citati non solo nelle note ma alla fine dell’introduzione con un intento concreto di indicare i percorsi intrapresi per approdare al libro, e anche questo non è un passaggio da poco in una dimensione ancora una volta come quella della poesia italiana dove sembra difficile la collaborazione mentre molto più facile appare la volontà distruttiva, come se fare parte di un piccolo mondo in macerie potesse recare qualche maggiore consolazione rispetto a vedere realizzato un faticoso lavoro da costruire mattone dopo mattone, e col sudore della fronte (parla di scouting a un certo punto la Rosadini e credo che questo dovrebbe essere il termine corretto).

Se viene data buona quest’idea di ricerca, anche difficoltosa (sono l’unico che ha notato le case editrici per cui hanno pubblicato fino ad oggi queste poetesse ? E ancora una volta, sono l’unico che ha notato la difficoltà che è in generale della poesia ma in particolare di chi non risponde a determinate fisionomie dell’immaginario poetico – qualche problemino di salute, qualche difficoltà comportamentale, sembrano piacere molto ai nostri editori – a imporsi a livelli di diffusione adeguati ?) viene a cadere anche l’idea stessa che la poesia scritta da donne debba per forza vivere all’interno di certi comodissimi steccati che sono quelli della natura e del corpo, che non sono ovviamente prerogativa delle nostre autrici (da dove partiamo: la torba di Pusterla ? L’importanza del corpo nel lavoro di Buffoni ? E se volessimo utilizzare i cambiamenti della natura per parlare della società ? Allore non ci troveremmo forse a parlare della Milano de La ragazza Carla di Elio Pagliarani, fino alla Milano attuale, quella che emerge da Tema dell’addio di Milo De Angelis o nella Bassa Stagione di Gianni D’Elia ?) ma che fanno in qualche modo parte dell’attuale quadro delle questioni che la letteratura stessa tende a trattare in maniera sistematica perché queste sono le questioni che in qualche modo appaiono urgenti da affrontare. E Nuovi Poeti Italiani 6 rappresenta una fotografia (corretta) della nostra realtà dove ancora fa scandalo approcciarsi a determinate questioni anche se quello che si ha da raccontare è valido e vale la pena che sia letto. Solo la lettura e la diffusione dei libri e della poesia fatta anche attraverso le major editoriali che ancora possono garantire un certo tipo di permeazione all’interno del nostro sistema potranno rendere consapevole la percezione della nostra poesia, se questo deve avvenire anche attraverso le polemiche ben venga, purché vengano analizzate le azioni, e non solo le intenzioni.

Written by matteofantuzzi

1 febbraio 2013 at 16:44

Fare poesia nell’epoca dei troll. Quattro poeti italiani.

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Probabilmente non dovrebbe essere considerato il giusto punto di partenza, ma quando si ha a che fare con la nuova poesia italiana rimane difficile non considerare tutta l’attenzione anche fuori luogo, tutto l’accanimento nei confronti delle ultime generazioni, quasi che la questione anagrafica potesse in qualche modo essere sufficiente alla determinazione di una cifra poetica complessiva. Questo in Italia è accaduto con fin troppa ricorrenza nel primo decennio degli anni Duemila creando essenzialmente una tensione che ha impedito una completa percezione e che forse oggi si è ulteriormente sclerotizzata nel momento in cui l’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione ha reso, se possibile, ancora meno governabile la percezione di quello che sta accadendo e aumentato lo stato di “conflitto”, ha creato un’esplosione di fenomeni, come quella dei troll più vicina al racconto di un reality che all’approccio ad una forma letteraria. Si assiste così, soprattutto in rete, ad un aumento della tensione tra i commentatori che toglie la possibilità di ragionamenti sostanziali attorno a quanto succede nell’immediato, si veda ad esempio quanto accaduto tra Carlo Carabba e Vincenzo Ostuni sulle colonne domenicali del Corriere della Sera (partita da un ragionamento sulla “popolarità” del premio Nobel Wislawa Szymborska e come spesso in Italia accade sulle questioni del pubblico e della fruizione, decisamente deficitaria) e a cui sono seguiti una serie di sanguinosi articoli, si veda ad esempio quello di Francesco Terzago su Absolute Poetry, si veda molto del sottobosco di Facebook che sta diventando la cassa di risonanza dei mal di pancia e delle frustrazioni del nostro sistema letterario sia per chi è già al suo interno sia per chi dello stesso vorrebbe con tutta la sua forza farne parte.
Anche per questo motivo preferisco non inserire nel titolo di questo lavoro la questione anagrafica, anche se credo bene che leggendo le note finali si capisca quale sia il materiale d’analisi, ma vorrei per una volta avere la presunzione di fare leggere questi poeti non tanto con l’immagine generazionale quanto piuttosto con l’idea sostanziale che sta dietro alla loro poesia, perché alla fine se non si rimane nell’idea di mappatura (e anche io in questo senso ho certamente delle “colpe” almeno per quanto riguarda la generazione dei nati negli anni Ottanta) viene un poco a perdersi l’idea stessa del fare poesia, come se davvero si potessero esaurire le patrie lettere poetiche in una o due esperienze: neo-lombardi e post-avanguardisti per intenderci, amici di Giovanni Raboni e sodali di Edoardo Sanguineti. In realtà il panorama è complicato e non solo per i fattori esterni, le esperienze che sembrano oggi prevalere vanno nella direzione di un’identità di scrittura che permette di riconoscere molti dei protagonisti di questo ultimo tratto letterario rispetto a quanto solo pochi anni fa accadeva e permetteva di ragionare esclusivamente attorno a un “pensiero dominante” per utilizzare il titolo dell’antologia firmata da Franco Loi e Davide Rondoni, un’identità che diventa un tutt’uno tra l’autore e la propria poetica e ne condiziona l’opera, facendola incentrare sull’io scrivente togliendo magari spazio percentuale al lavoro formale per andarsi a concentrare piuttosto sull’aspetto sostanziale.
La linea che forse viene a mancare (anche per l’ispessimento di quella orizzontale) è quella verticale, l’accusa è spesso mossa dai detrattori degli ultimi autori emergenti, ma a mio avviso chi oggi si sta imponendo non tende ad escludere la maestosità del Novecento poetico italiano quanto piuttosto cerca di non manifestarla, di renderla propria senza per questo imporla all’evidenza. Questi e altri nuovi poeti siano impregnati del nostro recente passato è facile da sottolineare e si vede con altrettanta semplicità permeando i testi qui presentati per raccontare linee e tendenze di quello che sta accadendo e cercare di dare un piccolo contributo a quell’idea tipicamente italiana (e dell’Italia letteraria) di costante lamentela, di costante disfattismo che ribadisco ricorda piuttosto una finta rissa da programma televisivo del secondo pomeriggio piuttosto che un sostanziale e auspicato atto di analisi.
Per il resto, e tornando ai testi, forse l’aspetto più interessante da raccontare è quello dei “falsi miti” in un’ottica che dovrebbe tendere a considerare la poesia alla luce del contesto europeo (e il St. Andrews Jorunal è ovviamente una sede d’eccellenza in questo discorso) piuttosto che nelle continue e minori beghe interne nazionali: andrebbe ad esempio subito notata la funzione del corpo, che da almeno trent’anni e con nuovo vigore ultimamente (si vedano le recensioni come quella di Andrea Cortellessa su Il Manifesto apparse a seguito dell’uscita dell’antologia “Nuovi poeti italiani 6” curata da Giovanna Rosadini per l’editore Einaudi) accompagnano soprattutto la poesia scritta da donne. In maniera volontaria non uso il termine “poetesse” che in qualche modo mi pare inadeguato, anche qui rappresentato da Isabella Leardini e Giulia Rusconi ma con una modalità che non è ancora una volta quella rappresentativa quanto piuttosto esemplificativa, la stessa modalità con cui Lidia Riviello utilizza gli episodi per caratterizzare varie sfaccettature della società e anche il suo imbarbarimento. Il corpo e persino l’amore (trattato sotto varie accezioni, arrivando fino ai limiti della perversione) sono funzionali al dettato poetico che mira alla natura umana come da sempre accade nella letteratura e che forse solo negli ultimi anni in Italia è stato condizionato da un’idea troppo privata e intima del fare poesia.
In Massimo Gezzi, probabilmente il più strutturato anche per quanto riguarda la lirica, l’io ritorna ad essere un “noi comune”, un porto nel quale attraccare e ritrovarsi. Gezzi è a suo modo l’esempio di come ci si possa ritrovare in una scrittura e in un sentire proprio a tutti, si riesca ad utilizzare il libro poetico come uno specchio nel quale rivedere se stessi, e se questo pare banale fuori dai confini italiani ora si può dire come una grande riconquista, come qualcosa che per troppo tempo non si è fatto e che ha allontanato tante persone dalla poesia facendone traballare la possibilità “antropologica” e portando alle grosse contraddizioni a cui assistiamo in un mercato che, nonostante la crisi, è ancora troppo grande e al tempo stesso troppo mediocre (le fiere della piccola e media editoria che in Italia pullulano si rivelano troppo spesso veicolo di micro-commercio piuttosto che ricerca di eccellenze editoriali, con danno di tutti). Si osserva in questo autore, e vale in qualche modo anche per Lidia Riviello un lavoro sulla memoria personale ed episodica che diventa memoria collettiva, un recupero che se per l’autrice romana è più dichiarato e presuppone un passaggio inverso, di comprensione degli eventi per arrivare a ragionare su se stessa, in Gezzi porta ad una condivisione che è oggi un tratto significativo dell’ultima nostra poesia. Ma in fondo questo accade per quanto riguarda Leardini e Rusconi, cambiano le dinamiche, le materie d’analisi, non cambia piuttosto il substrato che sta dietro a questi lavori. I sentimenti di cui parla Isabella Leardini sono fortemente condizionati dal mondo cinico nel quale si sviluppano, non potrebbero probabilmente vivere in un altro contesto diverso da quello contemporaneo e questa ricerca spasmodica di affetto e comprensione, questo desiderio umano così imponente dipende ancora una volta da esigenze che sono proprie di questi tempi. Altrettanto vale per Giulia Rusconi, le figure paterne di cui tratta sono qualcosa che emerge dalla nostra storia quotidiana, dalle difficoltà di rapporti tipiche di questi tempi e che raggiungono con facilità malattia e dolore di cui sono piene le cronache dei quotidiani e che bene questa scrittrice riesce a rendere riconsegnandoci un’idea di “normalità” che trasmette la stessa inquietudine che invece rimane dopo la lettura del sentimento “straordinario” richiesto con veemenza dalla Leardini.
Dinamiche e percorsi tutti inquadrati verso il dialogo quelli proposti (in particolare Lidia Riviello che in questo senso recupera quanto di meglio scaturito dalla lezione delle avanguardie e in particolare da Elio Pagliarani). Non è un caso che 3 degli autori presentati vengano da lavori di forte diffusione della poesia e in generale della letteratura, che la problematica della permeazione della poesia e della sua captazione rimangono una necessità forte che in qualche modo condiziona anche l’approccio della meno “navigata” Giulia Rusconi, in tutti questi autori l’idea di rivolgersi a un’identità più ampia rispetto alla normale platea a cui si è abituata la poesia italiana diventa un tutt’uno con le opere da cui sembra difficile potersi staccare. In fondo la centralità del testo sembra potere avere ancora un significato che va al di là anche delle infinite polemiche e serve prima di tutto a comprendere, a capire che le possibilità che l’attuale poesia può esprimere è alta, vanno in qualche modo asciugati i contesti, si deve ritornare alla lettura che è quello che ovunque accade ma meno in Italia dove la polemica sembra ingigantire ed annacquare, ma se si torna alla parola, se si torna al testo tutto riprende quel giusto equilibrio che permette alla poesia di essere tale.

(a cura di) Matteo Fantuzzi; Mosaici, St.Andrews University, Dicembre 2012. Con testi di Massimo Gezzi, Isabella Leardini, Lidia Riviello, Giulia Rusconi.

http://www.mosaici.org.uk/?items=fare-poesia-nellepoca-dei-troll-quattro-poeti-italiani-emergenti

Written by matteofantuzzi

26 gennaio 2013 at 23:30

La poesia, le galline giovani e il buon brodo.

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Mi ha fatto una certa impressione l’analisi di Gianfranco Lauretano domenica scorsa ad un convegno a Firenze: l’idea che in qualche modo la sua “generazione sfigata” (parole sue, anche se io decisamente preferisco l’idea di una generazione in ombra come a suo tempo la definì Marco Merlin, e che comunque ha prodotto Fabio Pusterla, Antonio Riccardi, Gian Mario Villalta, Davide Rondoni, Guido Mazzoni ecc.) debba fare posto fin da ora ad un’altra molto più agguerrita e in qualche modo più concreta in grado di arrivare là dove chi li ha preceduti per mille motivi non è riuscita, forse innanzitutto (aggiungo io) perché ha dovuto scardinare il pesante Novecento poetico della letteratura italiana ed andare oltre quello che fine a quel momento era stato considerato “normale” sia nelle linee dominanti che in quelle avanguardistiche e di rottura.
In fondo la questione cruciale degli ultimi tempi pare sempre quella, una certa “fame” nei confronti di galline e galletti giovani, dalla coscia succulenta, che se sfama nell’immediato di certo non si può considerare un pasto equilibrato, per lo meno nei confronti delle vecchie galline in grado di produrre sempre quantomeno il buon vecchio brodo che rimane la base della gastronomia, anche letteraria, italiana. Lo dico conscio della mia anagrafe e del fatto che buona parte del mio lavoro, attuale e di questi anni, va proprio nella direzione della ricerca del nuovo cibo letterario, ma un conto è il proprio mestiere, un conto è non volere considerare il lavoro (e le potenzialità) di chi ci ha preceduti. Non è solo troppo semplice buttare via una o più generazioni, ma davvero pericoloso, lo dico proprio perché chi sta entrando oggi affila le armi, aggiunge un piano fino ad ora poco considerato, il piano estetico e massmedizzato che ribalta la considerazione fin qui data per forte di una poesia intima e privata fino ad essere catacombale, un moto della parola che oggi diventa quasi “trendy”, invade le piazze attraverso i festival divenendo fenomeno sociale, evento, rito in certi casi.
La poesia che continuamente e anche in questo momento ribalta i propri piani di comprensione sembra insomma dovere ancora trovare un proprio, nuovo, equilibrio. Ma tutto questo non sembra possibile senza una base, un brodo appunto (primordiale) da cui tutto possa essere generato, e se Vittorio Sereni ed Eugenio Montale possono essere considerati gli ingredienti indispensabili di questa cucina (anche chi dice di non utilizzarli in realtà mente sapendo di mentire) il resto appunto è recupero e attenzione, anche per chi da sempre appare debole o per lo meno non sbandierato.
Riusciranno i festival, la rete, le medio-piccole case editrici, le riviste a garantire la copertura nutrizionale della letteratura o ci troveremo a fare indigestione di questo o quell’altro ? La domanda mi pare sempre corretta e solo con l’aiuto ti tanti si può veramente rispondere.

Written by matteofantuzzi

1 novembre 2012 at 09:59

Lasciate in pace i morti. Per Simone Cattaneo.

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Simone Cattaneo, Peace & Love, Il ponte del sale, Rovigo 2012.

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Simone Cattaneo aveva fretta, fretta in un mondo come quello della poesia dove per grandissima parte del tempo si rimane isolati, fuori da tutto, in attesa di una consacrazione che quasi mai arriva e che anche quando arriva raggiunge talmente poche persone che quasi perde di significato. Eppure per molti in poesia è necessario arrivare. E Simone aveva fretta, ho tenuto alcune sue mail in cui mi chiedeva, mi ricordava degli articoli che dovevo scrivere, a lui dedicati. Non ne aveva grande bisogno perché era bravo, molti lo sapevano, anche se non veniva da un lavoro di quelli per bene, anche se si spaccava le mani per campare, anche se non aveva il fisico del poeta: né mingherlino né storto, un mediomassimo piuttosto, un carpentiere della poesia (nemmeno artigiano), uno di quelli che tagliano la pietra grezza, che non lavorano sulla perfezione, sulla bellezza fine a se stessa quanto piuttosto ragionano sull’incompiuto, come accade sempre a livello umano e principalmente in poesia. Rileggere oggi l’opera di Simone Cattaneo grazie al lavoro fatto da Il ponte del sale significa comprendere a pieno uno dei principali fautori di quella generazione controversa e fondamentale che potremmo definire dei cosiddetti Settanta (che non è la mia, ho sempre considerato Cattaneo, come Andrea Temporelli, Massimo Gezzi o Andrea Ponso dei fratelli maggiori rispetto a me che in qualche modo ho diversamente inteso tematiche e modalità della poesia che ritrovo invece in altri a me coetanei) ma con uno sguardo, quello della “discesa all’inferno” della nostra società che in qualche modo lo proietta in una posizione ulteriore perché spiega quello che sta accadendo anche a livello letterario, fa capire che la percezione stessa del nostro immediato attraverso la poesia passa da un ribaltamento fondamentale del piano delle opere con un io mirato non tanto più alla propria visione ombelicale quanto piuttosto alla descrizione fredda, cruda, spietata dell’attorno.

Anche il susseguirsi delle opere va in questa direzione, più indulgente nel “Nome e soprannome” del 2001, episodio di insieme nel già apocalittico “Made in Italy” del 2008 e infine tragico nei testi incompiuti di Peace & Love dove in qualche modo saltano tutti gli schemi della tenuta umana e rimane solo l’ipotesi disarmante della mancanza di pietà di una società che soprattutto nel sistema metropolitano (fatto anche di hinterland e di industrie) finisce per consumare in primis chi scrive e non lasciare solo quel “pugno nello stomaco” che spesso viene attribuito a questo autore quanto piuttosto la sensazione che non ci sia finzione neanche nei passaggi più crudi, non ci sia altro che realtà. E che la realtà a un certo punto si paghi col prezzo più caro di tutti.

Written by matteofantuzzi

15 agosto 2012 at 23:06

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Costruire per la poesia una casa abitata.

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Riprendo questo post di Pietro Pisano apparso ieri su FB:

“Quella poesia (parlo di certa poesia che non vuole più essere poesia) che tenta di utilizzare, algidamente, la lingua della comunicazione quotidiana e dei consumi di massa, con tutti i suoi banali stereotipi e luoghi comuni, per denudarla e rivelarne, in una esibita e mera ripetizione, l’inautenticità, a me sembra, il più delle volte come una operazione poco utile e in buona parte fallita. Se infatti ci soffermiamo a pensare sulla marginalità che ha la letteratura e ancor di più la poesia nella nostra società, allora mi chiedo, com’è possibile lo smaschermento, se non vi è un vero e proprio pubblico che possa leggere tutto questo? E inoltre, non rischia questa poesia, in un certo senso, di esibire una verità fin troppo evidente e palese, presentandosi paradossalmente come il prodotto perfetto di quella società dei consumi che vuole combattere? Molto più interessante ed efficace invece mi sembra il tentativo di creare un linguaggio ibrido, sempre però all’interno dello scarto del linguaggio poetico rispetto a quello della comunicazione.”

perché mi ha fatto parecchio riflettere su qualcosa che a mio avviso sta avvenendo e che probabilmente fa parte anche di una volontà di staccarsi da quello che a un certo punto sta diventando realtà dopo molti anni di battaglie. Il senso secondo me su cui si può riflettere è comprendere se nell’idea stessa di poesia si debba rinunciare alla necessità che questa sia abitata dalle persone, proprio come una cosa. Se fossimo architetti credo che la mia idea di casa potrebbe dirsi funzionale, tale da potere essere frequentata e abitata da quante più persone possibili, ma non un casermone di quelli che sorgono nelle periferie delle metropoli, piuttosto un enorme quartiere con molti alberi e servizi utili alla società, asili e tutto il resto. Magari qualche altro architetto potrebbe contestare che le case sono semplici, quasi geometriche, eppure per potere essere abitate in larga misura, per convincere le persone ad abitarle credo che si debba mirare all’essenza, o in buona conclusione alla sostanza. Dall’altra parte emerge un gruppo di architetti (e teorici dell’architettura) che è ben felice di dimostrare come questa materia portata anche all’eccesso ma consapevole delle proprie dinamiche produce vette avanguardistiche importanti, magari quasi impossibili da abitare se non da un piccolo gruppo in grado di apprezzare i design più estremi, parte di quel mondo, di un’intellighenzia che si bea di essere qualcosa di difficile approdo, di difficile captazione. Per come la vedo io le cose se la propria poesia non regge, non viene abitata, non sta su proprio come una casa dalle fondamenta sostanziali traballanti non ha molto senso spingere all’estremo la forma, lavorare solo su di essa, criticare il pubblico perché non riconosce un modo di intendere un’opera. Diverso il discorso di creare un’attenzione formale su delle precise basi sostanziali, e qui forse sta il nodo, la vera spinta per il futuro della poesia. Ma crearsi alibi questo no, bisogna tirarsi su le maniche e darsi da fare, creare fondamenta stabili e rendere ogni poesia abitabile.

Written by matteofantuzzi

3 agosto 2012 at 09:34

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Il fenomeno delle cover band in poesia.

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Io non credo accada solo dalle mie parti, ma qui è un fiorire di gruppi musicali che mascherati a volte anche con esiti patetici ripropongono le cover di questo o quell’altro cantante, questo o quell’altro gruppo musicale. E le sagre non se ne fanno mancare una ! In effetti se Vasco Rossi non viene alla tua fiera dell’agricoltura vuoi mettere avere un tracagnotto e pelato vestito col chiodo rosso che va su e giù dal palco e forse un poco ci somiglia. Per poi non parlare della difficoltà di predisporre un concerto dei Queen (manca il cantante) o dei Beatles (rimangono solo Ringo e Paul) mentre 4 col caschetto si trovano sempre, magari tecnicamente bravi, sapientemente fedeli ma privi di quel qualcosa che piuttosto che musicisti li fa diventare semplici “ricopiatori”. Ecco secondo me troppo spesso in poesia accade la stessa identica cosa, troppo spesso si cercano approdi sicuri, e a volte è semplicemente “mancata conoscenza” di chi magari è rimasto ai tempi scolastici e quindi ancora si ricorda e scrive come fosse Ungaretti sul Carso, verso spezzato compreso. Ma forse più grave è la ripetitività conscia, con emuli di Montale, echi sereniani che si spingono fino alla vera e propria aderenza nonostante siano passati molti decenni e le cronache, il costume, il linguaggio si siano nettamente modificati. Ma la stessa cosa accade dall’altra parte cosiddetti sperimentali che ancora rincorrono il gruppo ’63 (e sono passati quasi sessant’anni, mica pochi giorni) senza nemmeno accorgersi dei limiti di quella stagione ma continuando ostinatamente a crederla l’unica soluzione possibile. Rimane un’altra via ? Certo, anche se è la più difficile: quella di una voce propria, frutto magari di un’innovazione all’interno della tradizione ma tale da distinguere un autore da un altro, creare singoli e non massa poetica letteraria. Perché se devo leggere un libro che scrive come xy decisamente preferisco leggere l’originale: perché voi da chi sareste andati nel 1989, a Venezia ad ascoltare i Pink Floyd o a Rosolina alla sagra del pesce a sentire la loro cover band ?

Written by matteofantuzzi

2 luglio 2012 at 21:23

Per il blog d’Atelier. Pippe e nuovi poeti.

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Per il blog d’Atelier. Pippe e nuovi poeti.

Per una volta non uso UniversoPoesia ma vi rimando al blog di Atelier. Lo stile comunque è il mio, potete insultarmi sia là che in questo spazio. Buona lettura. State bene.

Written by matteofantuzzi

31 Maggio 2012 at 13:40

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